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Allevatore Amatoriale...?


Da un anno a questa parte ho avuto modo di frequentare alcune esposizioni canine al seguito dell'amico Vinicio, che mi ha introdotto nel meraviglioso mondo dell'allevamento del boxer e che mi consente di condividere questa sua grande passione. La partecipazione a queste manifestazioni è stata anche un'occasione per conoscere altri allevatori che, oltre a farmi acquisire nuove informazioni su tale splendida razza, hanno generato in me una certa curiosità, derivante da una ricorrente affermazione in merito allo status giuridico-fiscale dell'allevatore di cani, che si ritiene sia strettamente connesso alla produzione di trenta cuccioli nell'arco di un anno. Proprio il numero trenta è stato la molla che ha fatto scattare in me il desiderio di approfondire l'argomento, spinto anche da una certa deformazione professionale. Iniziai la ricerca e ritrovai il dato numerico in oggetto nel Decreto del Ministro delle Risorse Agricole, Alimentari e Forestali del 28 gennaio 1994, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 40 del 18 febbraio 1994, il cui unico articolo recita testualmente: "Non sono imprenditori agricoli gli allevatori che tengono in allevamento un numero inferiore a cinque fattrici e che annualmente producono un numero di cuccioli inferiore alle trenta unità" Finalmente avevo trovato il numero ricercato all'interno di un Decreto che, a sua volta, definisce la Legge del 23/08/1993, n. 349 dettante le "Norme in materia di attività cinotecnica", pubblicata nella G.U. n. 213 del 10/09/1993. In sintesi, tali norme stabiliscono che l'allevatore cinofilo è un imprenditore agricolo quando risultano verificate contemporaneamente tutte le seguenti condizioni: - i redditi che ritrae dall'attività cinotecnica sono prevalenti rispetto a quelli derivanti da eventuali altre attività economiche non agricole esercitate; - tiene in allevamento almeno cinque fattrici; - produce annualmente un numero di cuccioli non inferiore alle trenta unità. A questo punto cominciai a rendermi conto di quanto fosse imprecisa la convinzione che è diffusa nell'ambiente cinofilo. A mio avviso tale confusione può essere stata originata dall'aver considerato soltanto il sostantivo "imprenditori", traendo la rapida conclusione che chi non possiede i requisiti di cui ai punti 1, 2 e 3 di fatto, non è imprenditore, trascurando, invece, l'elemento qualificante della norma, rappresentato dall'aggettivo "agricoli". Infatti, il Decreto sopra richiamato intende ricomprendere in ambito agricolo anche l'attività cinotecnica, con le conseguenti facilitazioni in ambito fiscale, urbanistico, agevolativo, ma non si propone di qualificare imprenditoriale o meno tale attività. Ma allora se l'allevatore di cani opera al di fuori dell'ambito agricolo, non avendo i requisiti stabiliti dal D. M. 28101/1994, in quale categoria giuridico-fìscale rientra? A questa domanda non vi è una risposta univoca ma dipende dalla situazione soggettiva di ciascun allevatore, la cui attività può farsi ricadere in tre grandi categorie che potremmo definire: - agricola; - commerciale; - commerciale non svolta imprenditorialmente. Dell'attività agricola abbiamo già detto. Si è in presenza di imprenditore commerciale quando l'allevatore produce ricavi e svolge la sua attività ai sensi dell'alt. 4 del DPR. 633/72, che recita "Per esercizio di imprese si intende per professione abituale, ancorché non esclusiva, delle attività commerciali o agricole ... , anche se non organizzate in forma di impresa, ..... " In questo caso si dovranno predisporre gli strumenti ed i documenti contabili, fiscali, previdenziali richiesti per il regolare svolgimento di attività imprenditoriali svolte sia in forma individuale sia societaria, come per esempio l'acquisizione della partita Iva, l'iscrizione al Registro delle Imprese, l'emissione dei documenti fiscali e la loro registrazione, la dichiarazione dei ricavi e dei redditi conseguiti, ecc .. Per chi già svolge un'attività imprenditoriale o professionale sarà sufficiente provvedere presso gli Uffici competenti ad effettuare una variazione, consistente nell'aggiunta all'attività normalmente esercitata, dell'attività di allevamento, per la quale si potrà tenere una contabilità separata rispetto all'attività prevalente, determinando il reddito con le stesse modalità utilizzate per le normali attività imprenditoriali, ossia dalla differenza fra ricavi e costi. In questa categoria, che potremmo definire dell'allevamento amatoriale, rientra probabilmente la maggior parte degli appassionati ed è in tale contesto di realtà simili, ma aventi variegate connotazioni, che diventa arduo addentrarsi in un tentativo di trattazione uniformemente applicabile. Infatti, mentre è veramente di carattere residuale il soggetto che mantiene presso di se una coppia di cani, diversa può essere la situazione di colui il quale ha un "mini allevamento" composto da quattro o cinque soggetti ed è pure titolare di affisso ENCI. In ogni caso, fatte comunque le dovute distinzioni, peraltro non così nette come potrebbe apparire a prima vista, sia l'uno sia l'altro soggetto ogni anno potrebbero iscrivere un certo numero di cuccioli nei registri genealogici dell'ENCI e provvedere poi a cederli a terzi. Per chiarire l'ambito di esercizio di tale attività ci soccorre l'alt. 81 del T.U.I.R. (Testo Unico delle Imposte Dirette del 22/12/1986 n. 917) il quale al primo comma stabilisce che "Sono redditi diversi, se non costituiscono redditi di capitali ovvero se non sono conseguiti nell'esercizio di arti e professioni o di imprese commerciali o da società in nome collettivo e in accomandita semplice, né in relazione alla qualità di lavoratore dipendente: ................................................. i) i redditi derivanti da attività commerciali non esercitate abitualmente" Ciò significa che l'allevatore amatoriale che, per esempio, è un lavoratore dipendente, dovrebbe certificare le vendite dei cuccioli prodotti in un anno mediante semplici ricevute d'incasso e conservare i documenti relativi alle spese sostenute (p.es. acquisto del mangime, spese veterinarie, ecc.); in questo modo sarà in condizione di determinare l'eventuale "reddito occasionale", se realizzato, sottraendo le spese dai ricavi, come indicato dal secondo comma dell'alt. 85 del sopra richiamato T.U.I.R., il quale stabilisce che "I redditi di cui alle lett. h), i) e I) del comma 1 dell'art 81 sono costituiti dalla differenza tra l'ammontare percepito nel periodo di imposta e le spese specificamente inerenti alla loro produzione ... " Il denominatore comune delle tre fattispecie in cui ho avuto la presunzione di far rientrare la maggior parte del microcosmo degli allevatori cinofili è, dal punto di vista tributario, rappresentato dalla necessità di rendere "ufficiale" un'attività che comunque appare essere fiscalmente rilevante, senza che da ciò derivi necessariamente un reddito tassabile. Anche dal punto di vista degli adempimenti, questi si limitano alla emissione di una ricevuta all'atto della vendita di ogni capo ed alla conservazione dei documenti di spesa sostenuta, al fine di riepilogarli nella dichiarazione annuale dei redditi, limitandosi ad indicare questi due dati in due righi del quadro relativo ai redditi prodotti in forma imprenditoriale od occasionale, il cui risultato andrà sommato al reddito complessivo dell'anno di riferimento. In concreto le incombenze per le tre categorie sopra specificate saranno per lo più le stesse, ma cambierà il quadro dichiarativo di riferimento oltre alla obbligatoria applicazione dell' lVA e delle registrazioni connesse da parte dei soggetti rientranti nel primo e nel secondo gruppo. In ogni caso si tratta di adempimenti veramente limitati e che richiedono un impegno veramente modesto. Arrivato a questo punto, colto da un eccesso di zelo, mi sono chiesto se le implicazioni di un'attività cinofila di allevamento si esaurissero nelle sole incombenze fiscali o se vi fossero altre disposizioni che potessero influire sulla ricerca di porre, almeno a livello minimale, le basi per poter operare in tale campo con una certa tranquillità e consapevolezza di muoversi nel rispetto delle norme e delle regole vigenti nei diversi campi nei quali tale attività va a impattare. Infatti, oltre ai regolamenti imposti dalI' ENCI, vi sono pure le Norme d'igiene che non possono essere trascurate da chi pone in essere un'attività me interagisce con l'ambiente in cui viene esercitata. A tale proposito ho interpellato l'A.S.L. competente sul territorio di mia residenza ed alcuni comuni della zona. Le informazioni che ho raccolto si riferiscono, per ovvii limiti territoriali, al Regolamento d'igiene della Regione Lombardia ed al "comportamento" di alcuni Comuni della Provincia di Bergamo. Il Regolamento d'Igiene pubblicato nel Bollettino Ufficiale della Regione Lombardia nel 4° supplemento straordinario al n. 43 del 25 ottobre 1989, al punto 3.10.6 del capitolo 10 "Ricoveri per animali" recita: "La costruzione di ricoveri per animali è soggetta ad approvazione da parte del sindaco che la concede sentito il parere del responsabile del Servizio n. 1 per quanto attiene le competenze in materia di igiene del suolo e dell'abitato e del Servizio Veterinario sulla idoneità come ricovero anche ai fini della profilassi delle malattie diffusive degli animali e ai fini del benessere delle specie allevate. L'attivazione dell'impianto è subordinata all'autorizzazione del Sindaco che la rilascia previo accertamento favorevole dei Responsabili dei Servizi n. 1 e Veterinario secondo le rispettive competenze. L'autorizzazione deve indicare la specie o le specie di animali nonché il numero dei capi svezzati che possono essere ricoverati. Qualora trattasi di: ....................................... canili gestiti da privati o da enti a scopo di ricovero, di commercio o di addestramento; ........................................ detta autorizzazione è subordinata al nulla osta previsto dall'art. 24 del Regolamento di polizia veterinaria approvato con DPR. 8 febbraio 1954, n. 320 e attualmente rilasciato dall' E. R. dei servizi di zona competente per territorio ". Quanto sopra, ovviamente, riguarda l'approntamento di un allevamento di dimensioni rilevanti, per il quale si dovrà ricercare una dislocazione appropriata in zona agricola. Per quanto concerne un allevamento "amatoriale", non essendovi una previsione specifica per i cani, il comportamento tenuto dagli Enti interpellati, Comuni e A.S.L., si rifà, per analogia, alle disposizioni previste per l'allevamento di animali per "uso familiare", dettate al punto 3.10.10, del sopra richiamato Regolamento d'Igiene della Regione Lombardia, per pollai e conigliaie, il quale stabilisce che "I pollai e le conigliaie devono essere aerati e mantenuti puliti; devono essere ubicati al di fuori delle aree urbanizzate, all'interno delle quali sarà ammesso solo un numero di capi limitati all'uso familiare e comunque alla distanza dalle abitazioni viciniori non inferiori a metri 10". Praticamente viene ammessa la presenza di cani nell'ambito del tessuto urbano residenziale, in un numero pari ai residenti dell'unità immobiliare interessata, che abbia però i requisiti di spazio tali da garantire che i box, nei quali vengono mantenuti i cani nel rispetto delle norme igienicosanitarie sopra precisate, siano posti contemporaneamente ad almeno cinque metri dal confine e ad almeno dieci metri dalle altre abitazioni. Quanto sopra esposto, lungi dall'essere esaustivo, è soltanto un contributo che si spera possa stimolare ulteriori approfondimenti, al fine di rendere l'allevamento amatoriale del cane di razza un'attività pienamente integrata nel tessuto sociale e nell'ambiente in cui viene esercitata, evitando di generare dubbi e diffidenze e contribuendo, invece, a dare consapevolezza del ruolo svolto nel miglioramento delle qualità di quell'animale che, a ragione, viene definito il migliore amico dell'uomo.

Fonte. http://site.bcionline.it/documenti/Informazioni

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